In Italia, solo un terzo delle cariche politiche nazionali e meno di un quinto di quelle locali è occupato da donne. Eppure l’uguaglianza politica garantita dagli articoli 3 e 51 della Costituzione.
Dopo il primo tentativo del 93, quando il Governo introdusse nelle elezioni locali e nazionali le quote di genere che una sentenza emanata dalla Corte Costituzionale dichiarò illegittime, la questione dell’uguaglianza politica, garantita dagli articoli 3 e 51 della Costituzione, viene nuovamente affrontata 2003 e corretta tramite una legge costituzionale che esplicita il dovere della Repubblica di “promuovere” e non più solo garantire, “con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. Da allora, le quote di genere sono state re-introdotte nel 2004 a livello europeo e nel 2012 a livello nazionale. Al momento, sono applicate a tutti i livelli: dalle elezioni comunali alle europee, in forme quali preferenze alternate nelle liste e proporzione tra i due sessi pari almeno al 40:60 nelle liste e nei collegi uninominali.
La rappresentanza femminile è certamente aumentata: circa il 36% degli scranni del Parlamento sono occupati da donne, ma la presenza in Parlamento non sempre si traduce in effettiva rilevanza. Nelle commissioni parlamentari, le Presidenti donne sono un’eccezione tanto alla Camera quanto al Senato e il trend è stato piatto nel corso degli ultimi venticinque anni, come d’altronde, nei dicasteri, nei ministeri chiave. Il Governo Conte II apparentemente ha mostrato più “interesse” verso la parità di genere con poco più di un terzo del totale, ma soltanto quattro avevano il cosiddetto portafoglio…
Insomma, a guardare i dati la sinistra, solo apparentemente si impegna per ridurre il gender gap, ma nella pratica, peggiora ulteriormente la questione proponendosi come innovativa ed aperta, ma di fatto discriminando le scelte tramite il collocamento in posizioni secondarie. Lo stesso quadro si riflette a livello locale: il decennio che che si è chiuso nel 2020 ha registrato un aumento della rappresentanza femminile a livello comunale (75%) e regionale (183%), ma rimane evidente un problema nelle posizioni apicali. Infatti “la presidenza delle regioni è stata in mano a una donna poche volte: mai più di tre regioni contemporaneamente e soltanto una regione (Umbria) ha avuto più di una presidente. Si può inoltre osservare come, nonostante un significativo miglioramento nel tempo – città rilevanti come Torino, Roma e in passato Milano sono o sono state amministrate da donne -, solamente il 14% dei comuni abbiano una sindaca donna, per un totale di 1107 sindache per 7914 comuni italiani. Se sui sindaci la strada da percorrere è ancora lunga, risulta invece positivo il bilancio per quanto riguarda gli assessori, dove la parità sembra essere ormai vicina (il 43% degli assessorati comunali è infatti guidato da donne)” (Il Sole 24Ore).
Cosa fare? Mentre la sinistra si pavoneggia teorizzando e mostrando buoni propositi, FdI da un esempio pratico di efficienza verso il cambiamento: una leader donna che poco ha da invidiare a qualunque collega, che mostra come potrebbe essere un Governo al femminile, ovvero concreto, aperto, attento e coerente.
Per rendere più effettiva la rappresentanza femminile è necessario individuare e superare gli ostacoli che scoraggiano le donne ad una partecipazione attiva alla vita politica puntando per esempio a politiche volte a conciliare lavoro e famiglia.
Si può fare!
In alcuni stati d’Europa, il cambiamento è in corso o avvenuto: da gennaio 2021, l’Estonia ha per la prima volta un primo ministro al femminile, Kaja Kallas. Un evento che porta a 5 su 27 il numero di donne a capo degli attuali esecutivi dei paesi dell’Unione europea. Una quota residuale, pari al 22%, che aumenta solo lievemente se consideriamo anche l’organo esecutivo dell’Unione, la commissione europea, al momento guidata dalla presidente Ursula von der Leyen.
La Germania è uno dei 5 paesi che attualmente, hanno una donna a capo dell’esecutivo. Gli altri stati sono Danimarca (Mette Frederiksen), Estonia (Kaja Kallas), Finlandia (Sanna Marin) e Lituania (Ingrida Šimonytė). Stati che, a differenza di quello tedesco, hanno poi altri ruoli chiave ricoperti da donne oltre a quello di capo del governo.
FONTE: dati ed elaborazione openpolis
(ultimo aggiornamento: lunedì 8 Febbraio 2021): con il valore 1 viene indicata la presenza di una donna nel ruolo considerato. Sono inclusi nella classifica solo i paesi Ue dove almeno una delle key positions individuate è ricoperta da donne. Per l’Ue abbiamo considerato ruoli assimilabili a quelli considerati, in particolare: presidente del consiglio europeo (capo di stato), presidente della commissione europea (capo esecutivo), commissario europeo per gli affari economici e monetari (ministro economia), alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (ministro esteri), commissaria agli affari interni (ministro interni), commissaria alla salute e sicurezza alimentare (ministro sanità). Anche se attualmente non è più membro Ue, il Regno Unito è stato incluso nell’analisi ai fini di un confronto più completo.
I paesi del nord e del nord-est si distinguono non solo per presenza femminile al governo, ma anche in termini diposizione chiave. A questi stati si aggiunge la Spagna con tre ministre (all’economia, agli esteri e alla sanità) e l’Unione europea. Seguono Belgio, Lussemburgo e Regno Unito, con due ruoli chiave di cui uno è quello di ministro degli interni, ricoperto da donne in tutti e tre i paesi. Oltre agli stati che chiudono la classifica con un solo ruolo ciascuno, è importante sottolineare l’assenza di ben 10 membri Ue: Francia, Austria, Cipro, Croazia, Lettonia, Malta, Polonia, Romania, Slovenia e Ungheria. Nei governi di questi paesi, le 6 posizioni chiave sono tutte ricoperte da uomini.
E l’Italia?
Solo uno dei ruoli governativi di rilievo è ricoperto da una donna. Si tratta di Luciana Lamorgese che nel governo Draghi è stata nuovamente nominata ministra dell’interno, confermando la posizione che già ricopriva nel governo Conte II.
Negli ultimi 10 esecutivi più quello attuale, la presenza femminile tra i ministri è del 21,8%. Una quota assolutamente minoritaria, che si riduce al 15,5% se si considerano solo i ruoli governativi di maggiore rilevanza (presidente del consiglio, ministro dell’economia, ministro degli esteri, ministro degli interni, ministro della sanità). Dal 2001 a oggi, solo tre delle posizioni chiave individuate sono state ricoperte da donne almeno una volta: ministro degli esteri, degli interni e della sanità. In Europa la situazione è migliore, ma qui stiamo trattando della situazione nazionale che deve cambiare e mostrare effettivamente un salto che prima di tutto è culturale.
Con le future elezioni nazionali, sarà finalmente possibile attuare un vero cambiamento che, ancora una volta, avrà spinta di destra. Da qui, potremo partire affinché in ogni campo lavorativo, la figura della donna sia valorizzata e la meritocrazia sia finalmente applicata a prescindere dal sesso.
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